Agata Azzolina


Papillon. Si chiamava così, con questo nome un po’ strano, quel negozio di gioielli, pellicce e abiti da sposa che la famiglia Frazzetto - Azzolina aveva aperto da qualche anno in via Terracina, a Niscemi, in provincia di Caltanissetta. In terra di mafia però la libertà d’impresa a volte può essere davvero un’utopia. E anzi, più le cose vanno bene, più ti devi aspettare che, da un momento all’altro, qualcuno venga a bussare alla porta del tuo negozio. E non solo per chiederti soldi. Perché le estorsioni si possono anche mascherare, pretendendo per esempio di portare via la merce senza pagare. A Salvatore e Agata era accaduto proprio questo. Loro però avevano sempre resistito, non si erano mai davvero piegati a quella che appariva una cosa normale a Niscemi, dove in tanti non nascondevano, neanche per pudore, quella prassi, quella assurda consuetudine. Loro no, non volevano accettarlo. Il 16 ottobre del 1996 è una data centrale nella storia di questa famiglia, e, in particolare, nella storia di Agata. È la data che cambia il destino di questa donna, che le stravolge l’esistenza, le toglie il sorriso, l’allegria, la forza. Tutti tratti tipici della sua personalità. Quel giorno due pregiudicati entrarono nella gioielleria. Salvatore comprese che quei due non avrebbero voluto pagare, pur pretendendo di portare via i gioielli. Si oppose, gridò. La reazione dei malviventi fu violentissima: spintoni, calci, schiaffi. Agata iniziò a urlare e Giacomo accorse per capire cosa stesse succedendo. Uno dei due impugnava la pistola che custodivano nel negozio. L’arma però era stata strappata dalle mani di Salvatore. Il primo colpo. Poi Agata riuscì a uscire dal negozio e chiedere aiuto. Il secondo, il terzo colpo, la fuga dei malviventi. Quando Agata rientrò, i corpi di Salvatore, 46 anni, e Giacomo, 23, erano stesi sul pavimento, senza vita. Per Agata fu l’inizio della fine. Un dolore insopportabile, le immagini di quella sera scolpite nella mente che non le davano pace. Cercò di aggrapparsi all’amore per sua figlia, di non cedere allo sconforto, di continuare il suo lavoro. Indicò agli inquirenti i nomi degli assassini, Saltare e Maurizio Infuso, 26 e 23 anni, che furono arrestati poche ore dopo in un casolare di campagna, con ancora nella borsa la pistola utilizzata per uccidere Salvatore e Giacomo. Ma era tutto enormemente difficile. Difficile come continuare a sopportare le intimidazioni, le minacce e le violenze che neanche quella tragedia e tutto quel dolore avevano interrotto. Aggressioni regolari che non si fermavano di fronte a niente, neanche di fronte alla tutela che era stata assegnata alla donna, sotto la cui casa stazionavano due militari. L’ultimo giorno dell’anno, l’ennesimo atto di violenza nel suo negozio: ancora una volta calci, schiaffi, richieste di soldi e silenzio. Per Agata la vita era diventata un inferno. La notte tra il 22 e il 23 marzo del 1997 Chiara, allora ventunenne, rientrò a casa intorno alle 2.30, dopo una serata trascorsa in pizzeria con gli amici. Arrivò in cucina e vide il corpo senza vita di sua madre, appeso a una corda fissata su una trave del soffitto. Agata si era impiccata, sopraffatta dal dolore, a 43 anni. Vittima anche lei della violenza mafiosa. Sul tavolino, ritagli di giornale, foto e un biglietto: “Perdonami Chiara, ma non ce la faccio più. Lascia questo paese maledetto”. Un ultimo disperato invito rivolto a sua figlia, affinché provasse a scappare dal vuoto e dalla solitudine cui lei non aveva saputo resistere. Il giorno prima del gesto estremo, a Niscemi si erano radunate migliaia di persone per fare memoria delle vittime innocenti delle mafie. Accanto a loro, i vertici del Governo. Ma Agata aveva scelto di non scendere in piazza.