Santa Buccafusca era nata a Nicotera Marina, in provincia di Vibo Valentia, il 7 febbraio del 1974. La sua era una famiglia umile e onesta, la cui unica fonte di sostentamento era il mare. Un contesto difficile quello di Nicotera, condizionato da una presenza asfissiante della ‘ndrangheta. Qui, in questo lembo di terra affacciato sul mare, alcune delle più potenti famiglie di mafia calabresi esercitavano un dominio incontrastato. Conobbe Pantaleone Mancuso, alias Luni Scarpuni, aveva di fronte a sé una strada spianata e un futuro già segnato, che, nel giro di pochi anni, lo avrebbe portato a diventare uno dei più influenti capimafia della ‘ndrangheta calabrese. Tita se ne innamorò perdutamente e legò indissolubilmente a quest’uomo la sua vita e il suo destino. Al punto di decidere di aspettarne pazientemente la scarcerazione per sposarlo. Negli anni della detenzione di Luni, lei piano piano scivolò in una vita triste e cupa, preda di una depressione violenta, che la costrinse all’uso dei farmaci e a due diversi ricoveri in ospedale per “reazione paranoide acuta”. Era il dicembre del 2008. Intanto lei continuava a fare la sua parte, completamente calata nel ruolo della donna del boss. A lei erano intestate società e conti correnti; dalla sua pescheria - avrebbe raccontato anni dopo un pentito - transitavano i soldi del traffico di droga. Pochi mesi dopo quei ricoveri, evidenti segnali del malessere che ne opprimeva la mente, Mancuso lasciò il carcere e trovò Tita ad aspettarlo. I due si sposarono e nel 2010 quell’amore tossico, che aveva avuto in Luni il suo unico oggetto, generò un bambino, Salvatore. Un nuovo oggetto d’amore per Tita. Stavolta però, di un amore puro, che non accetta limiti e per il quale si è disposti a mettere in discussione tutto: l’amore di una madre per suo figlio. E fu proprio questo amore a farle aprire gli occhi. Improvvisamente Tita si rese conto che quella vissuta sino ad allora non era la vita che avrebbe desiderato davvero e, soprattutto, che avrebbe desiderato per suo figlio. Aveva fatto la sua scelta: avrebbe raccontato tutto ciò che sapeva, assumendosi le sue responsabilità per amore materno e accettando di essere inserita in un programma di protezione. Fu una scelta dirompente, che spiazzò gli inquirenti. Per loro, quella scelta era una falla potenzialmente dirompente nel sistema dei Mancuso, una vera e propria bomba. Quella notte, tra la caserma di Nicotera e il Comando provinciale dei carabinieri di Catanzaro, dove fu immediatamente trasferita per ragioni di sicurezza, Tita fu un fiume in piena. Riempì con le sue dichiarazioni tre pagine di verbali. Addirittura chiamò suo marito al telefono, gli comunicò la sua decisione di cambiare vita, lo implorò di fare lo stesso. Ma non fu semplice, anzi. Quella fu una notte tormentata, una drammatica altalena di sentimenti, tra sensi di colpa, tentennamenti, ripensamenti. Quei verbali Tita non li firmò. Chiese di rimandare al mattino successivo la sottoscrizione delle sue dichiarazioni. Poi firmò solo la prima pagina e scrisse a metà il suo nome sulla seconda. Infine, di fronte ai militari che tentavano di convincerla - dicendole che, se non avesse firmato, sarebbe dovuta tornare a casa da suo marito - chiese di chiamare sua sorella. Fu il passaggio decisivo: “non firmo, non firmo proprio”. Alle 5.00 del mattino del 15 marzo, Antonietta Buccafusca prelevò sua sorella a Catanzaro per riportarla a casa. Chissà cosa dovette essere la vita di Tita nei giorni successivi. Un mese esatto. Il 16 aprile, Pantaleone Mancuso bussò alla stessa caserma dei carabinieri dove sua moglie si era rifugiata per comunicare ai militari che lei, Tita, aveva buttato giù mezza bottiglia di acido muriatico. Morì due giorni dopo, tra atroci sofferenze, mangiata viva dall’acido, su un letto dell’ospedale di Reggio Calabria. Aveva 37 anni. Suo figlio poco più di 15 mesi.