Maria Concetta Cacciola


Maria Concetta Cacciola nasce in una famiglia di mafia il 30 settembre del 1980. Suo padre, Michele Cacciola, è il cognato del boss di Rosarno, Gregorio Bellocco. Siamo nel cuore della Piana di Gioia Tauro, terra di Calabria asfissiata dalla presenza criminale. La mamma di Concetta, Anna Rosalba Lazzaro è completamente immersa in quella cultura e così anche suo figlio, il fratello di Maria Concetta, Giuseppe. La ragazza cresce troppo in fretta e a 13 anni si ritrova già sposa di Salvatore Figliuzzi, che nel 2002 sarebbe finito in carcere perché affiliato al clan Bellocco. Insomma, attorno a lei tutto è mafia. Ben presto, la vita di Maria Concetta comincia a sprofondare verso un inferno di violenza, paura, sopraffazione, crudeltà. Il marito è violento con lei, fino al punto di puntarle una pistola alla fronte, al culmine dell’ennesimo violento litigio. Nel 2002 l’uomo finisce in carcere. Maria Concetta si libera di quell’amore sbagliato ma la sua famiglia, suo padre e suo fratello, riescono a fare anche di peggio. La rinchiudono in casa, segregata e isolata, lontano da qualsiasi contatto con il mondo esterno, ancor più perché sopraffatti dal sospetto di una relazione extraconiugale. L’11 maggio del 2011 la donna, all’epoca 31enne, si presenta presso la Tenenza dei Carabinieri di Rosarno, ufficialmente convocata perché suo figlio Alfonso era stato beccato a guidare senza patente. Al cospetto dei militari, Maria Concetta riferisce di essere intenzionata a parlare di sé, della sua famiglia e della sua vita in quella famiglia. Ma non in quel momento: non poteva destare alcun sospetto nei suoi familiari. Quel giorno però fu l’inizio di tutto. Torna in caserma il 19 maggio e poi, di nuovo il 23 e il 25, quando ad ascoltarla sono direttamente i magistrati della DDA di Reggio Calabria. Sono dichiarazioni scottanti le sue, e credibili. E dunque gli inquirenti si rendono conto che quella donna va protetta, non può essere lasciata nelle mani della sua famiglia. Così, nella notte tra il 29 e il 30 maggio, Maria Concetta diventa ufficialmente una testimone di giustizia, finisce nel programma di protezione e viene allontanata da Rosarno, dapprima a Cassano allo Ionio e poi lontano, in Liguria, a Genova, interrompendo qualsiasi contatto con la famiglia. Eppure Maria Concetta, pur determinata ad andare fino in fondo e a liberarsi di quell’incubo, non è felice. E non lo è perché non ha con sé i suoi figli, che non ha potuto portarsi dietro. I figli sono l’unico legame che ancora la tiene legata a Rosarno e alla sua famiglia. Diventano uno strumento di ricatto quando la donna decide di ricontattare i suoi, spinta dal desiderio di sentire i bambini. Piangono, vogliono la madre. Le fanno capire chiaramente che, se non fosse tornata, i suoi figli non li avrebbe più rivisti. Lei non resiste. Il 2 agosto sua madre e suo fratello vanno a prenderla e si rimettono in viaggio per tornare a Rosarno. Saranno loro a metterla in contatto con due avvocati e solo dopo potrà rivedere i suoi figli. Loro la perdoneranno. Maria Concetta non ci crede: sa perfettamente che la ‘ndrangheta non perdona. Ma vuole riabbracciare i suoi bambini. E così, nella notte tra l’8 e il 9 agosto, ritorna a Rosarno. Il 12 agosto, accetta di incontrare gli avvocati, firma una ritrattazione e registra un nastro. Sono i suoi ultimi giorni di vita. Il 20 agosto la donna viene ritrovata in fin di vita. L’acido muriatico ingoiato le aveva bruciato la bocca. Una morte orribile. Un suicidio, per la sua famiglia, che non si ferma neanche dinanzi a tanta barbarie e, tre giorni più tardi, quando ancora i funerali non sono stati celebrati, deposita un esposto in cui la giovane donna è descritta come una depressa, una malata di mente. Per questo si era uccisa in quel modo orribile. 
Ma Maria Concetta non era pazza. E, soprattutto, Maria Concetta non si era uccisa. La sua morte, le modalità con cui si era consumata, erano tutt’altro che un suicidio. Semmai, quella povera ragazza, che sognava per sé e i suoi figli un futuro diverso, era stata suicidata. Il suicidio non aveva alcun senso in quella storia. Il suo omicidio sì, così come la scelta dell’acido a bruciarle la bocca, che aveva parlato troppo.